Dal 23 febbraio a oggi, 15 aprile, sono trascorsi 52 giorni dal primo provvedimento emesso dal Governo Conte per contrastare l’emergenza Coronavirus.
Gli accessi alle RSA, dapprima limitati ai soli casi di necessità, sono ormai blindati da oltre un mese. Tuttavia, quelli che avrebbero dovuto essere rifugi dalla malattia, si sono trasformati in “trappole”, spesso mortali, per i più deboli, i nostri anziani, i nostri genitori, i nostri nonni.
Uscirne è praticamente impossibile. Mentre, a entrare è solamente il personale medico e sanitario autorizzato, che, però, non sempre ha le giuste protezioni per svolgere il suo lavoro.
Per questo, nascono, come giusto, le proteste, gli scioperi. Oss, infermieri rivendicano mascherine, tute, tutti materiali necessari per preservare se stessi, ma soprattutto gli ospiti delle residenze, che richiedono cure e attenzioni che annullano inevitabilmente la distanza fisica richiesta per scongiurare un eventuale contagio.
Purtroppo, addossare le colpe agli altri, andare alla ricerca del responsabile di turno non aiuterà a migliorare la situazione, a isolare i positivi dai sani.
Ma stupisce che un sistema che si definisce all’avanguardia, come il nostro, non si sia preoccupato della condizione di molte RSA italiane già prima, quando la normalità era possibile, quando il virus non era ancora entrato dalla porta, insidiandosi senza neanche bussare.
E adesso, non ci resta che sperare. Perché #andràtuttobene non è più uno slogan così convincente e il silenzio delle camere semivuote delle RSA comincia a farsi sentire.